Perché siamo così ipocriti sulla guerra? – Fabio Mini - Casa editrice Chiarelettere
"L'ipocrisia è quel tipo particolare d'inganno che ricorre alla simulazione di buoni sentimenti per approfittare della buona fede altrui e coprire i vizi propri, ma non tutto ciò che inganna è ipocrita come non tutto ciò che è sincero è necessariamente buono." Fabio Mini Ogni guerra si è procurata i pretesti sia facendo appello a motivi giusti e veri, sia fabbricandone di falsi. Dalla guerra di Troia alle «operazioni umanitarie» di oggi. Parola di un generale. Cinque risposte per spiegare il perché della guerra (la menzogna, gli affari, l'arte dell'ipocrisia, il gusto della guerra, l'ipocrisia della normalità). Due ore di lettura che lasciano il segno. Per fare piazza pulita di tanti luoghi comuni e comode giustificazioni. La domanda è legittima, ma rischia di essere ipocrita se vuole manifestare sorpresa, rammarico o vergogna. Perché l'ipocrisia è quel tipo particolare d'inganno che ricorre alla simulazione di buoni sentimenti per approfittare della buona fede altrui e coprire i vizi propri, ma non tutto ciò che inganna è ipocrita, come non tutto ciò che è sincero è necessariamente buono. Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici, quelli tecnologici e quelli legati all'esercizio della violenza allo stato puro, che porta all'espressione della potenza e dell'intelligenza umana. Siamo sinceri quando chiamiamo geni i grandi condottieri e chiamiamo criminali di guerra coloro che si macchiano consapevolmente di atti notiamo che più bestiali ed efferati sono i loro atti, più la condanna si scontra con una sorta d'ammirazione, quando accostiamo i grandi criminali ai geni e quando non ce la sentiamo di condannare i grandi della scienza che spesso aiutano i criminali a raggiungere gli abissi della loro nefandezza. Così non c'è bisogno dell'ipocrisia per riconoscere che la guerra non è soltanto potenza: è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi. Fabio Mini (Manfredonia, 11 dicembre 1942) si è laureato in Scienze strategiche per poi perfezionarsi in Scienze umanistiche presso l'Università lateranense e in Negoziato internazionale presso l'Università di Trieste. Generale di corpo d'armata, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei B alcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Tra i vari incarichi è stato portavoce del capo di stato maggiore dell'Esercito italiano e, dal 1993 al 1996, ha svolto la funzione di addetto militare a Pechino. Ha inoltre diretto l'Istituto superiore di stato maggiore interforze (Issmi). Commentatore di questioni geopolitiche e di strategia militare, scrive per «Limes», «la Repubblica» e «l'Espresso», è membro del Comitato scientifico della rivista «Eurasia» ed è autore di diversi libri, tra cui La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale (Einaudi, 2003), Soldati (Einaudi, 2008), Eroi della guerra. Storie di uomini d'arme e di valore (il Mulino, 2011). NOTA: Il testo qui pubblicato è una rielaborazione della conferenza tenuta al teatro della Cavallerizza di Reggio Emilia l'8 ottobre 2011 nell'ambito del TEDx Reggio Emilia a cura di Riccardo Staglianò.